Damiano Leo, l'immagine è tratta dal profilo facebook di Damiano Leo)
Ricevo da Damiano Leo e pubblico il racconto "Rumori sospetti". Buona lettura!
"Rumori sospetti"
I tre si erano giurato fedeltà, con i fatti, non con
le parole. Gli ultimi furti d’appartamento, nonostante avessero fruttato poco,
avevano dato forza e coraggio al loro menage.
Potevano
osare di più. Se lo erano detto e ridetto nei giorni successivi all’ultima
spartizione.
Riuscire
ad intrufolarsi in un appartamento per portar via solo qualche oggetto di poco
conto cominciava a star loro troppo stretto. Giacché c’erano potevano trafugare
di più, molto di più. Bastava organizzarsi. Nella grossa metropoli nella quale
avevano deciso di far quartiere generale, non mancavano certo le opportunità.
Dovevano attrezzarsi. I frutti si sarebbero visti.
In pieno centro residenziale avevano individuato un
attico normalmente non presidiato dalle otto alle diciotto. Anche gli altri
quattro inquilini, tutti professionisti, in quelle ore erano altrove. Dieci ore
di indisturbato lavoro.
Ripetuti
sopralluoghi avevano fatto sì che i nostri ladri decidessero per tempo come e
da dove introdursi. Sul retro del palazzo c’era spazio a sufficienza per
piazzare un comodo trabattello. Nessun balcone e nessuna finestra lungo tutta
la verticale. Avrebbero simulato una ritinteggiatura a pennello di quella
fascia.
Ognuno per
contro proprio, per non destare sospetti, aveva acquistato l’occorrente: tute
usa e getta, guanti, pennelli e pittura, elmetti e scarponi antinfortunistici.
Il capo si era procurato, non sappiamo come, l’impalcatura mobile, completa di
tavoloni e cartelli segnaletici. Da un suo compare si era fatto prestare il
camion che sarebbe servito per il trasporto di materiale e refurtiva.
Alle dieci in punto l’autista bloccò il mezzo. Proprio
in corrispondenza dell’attico da visitare. Già imbacuccati come tre consumati
imbianchini saltarono giù dal mezzo, uno dopo l’altro. Circoscrissero la zona
con il nastro bianco e rosso a più riprese. Montarono l’impalcatura mobile,
lentamente come a voler saggiare il terreno. Un passante si arrestò un attimo.
Guardò e proseguì oltre. Pensò esattamente quello che i nostri volevano:
imbianchini che si apprestano a compiere il loro solito lavoro.
Tubo dopo
tubo, tavolone dopo tavolone i tre si trovarono faccia a faccia con il
finestrone desiderato. Tutto come previsto. Un orologio svizzero. Di lì a poco
avrebbero messo a soqquadro un ricco attico di quattrocento metri quadri. Il
camion giù non aspettava altro.
«Passami
il piede di porco.»
«Ma quale
piede di porco. Fatti in là che ti faccio vedere io. Una spallata e siamo
dentro.»
Non c’era mai nessuno, a quell’ora, nell’attico.
Eppure dopo il primo colpo di spalla il capo aveva sentito qualcosa provenire
dall’interno. Altra spallata. Più forte.
Altro rumore non definibile dall’interno. Una nuova spallata. Niente, il
finestrone non si apriva. Altro rumore oltre il vetro.
L’orecchio
destro dei tre, a turno, si assestò contro la parete. “Qui c’è qualcuno”
dedussero i malviventi e se la dettero a gambe levate. Abbandonando
trabattello, piede di porco, elmetti e camion, per non perdere tempo.
La
famigliola dell’attico: madre, padre e bambina, rientrarono la sera insieme.
L’ingegnere aprì il portone. La signora subito ai fornelli. La figlia, come
sempre, di corsa nella stanza che dava sul retro, chiamando per nome
coniglietto. Aspettava, insolitamente agitato, nella sua gabbia rossa.
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