Damiano Leo, l'immagine è tratta dal profilo facebook di Damiano Leo)
Ricevo da Damiano Leo e pubblico il racconto "Le dita sul pianoforte". Buona lettura!
Le dita sul pianoforte
Filomena, la mia sorella minore, finalmente l’aveva
spuntata. A differenza di noi, era riuscita a farsi iscrivere al Conservatorio.
Lei - diceva - aveva un debole per il
pianoforte, così, per quello strumento, tutte le sere, dalle cinque alle sette,
era fuori casa.
Io un po’
la invidiavo e non tanto perché lei poteva cambiare aria, quanto perché anche a
me sarebbe piaciuto ricevere lezioni di musica. A me piacevano tutti gli
strumenti a percussione, ma mi ero dovuto accontentare di picchiare e
ripicchiare su pentole, tegami, bicchieri e stoviglie inforcando mestoli di
legno da cucina. Mia madre tollerava, ma lei, mia sorella che frequentava il
Conservatorio, proprio non voleva stare ad ascoltarmi. La mia non era musica,
ma insopportabile rumore, almeno per lei ed anche per mio padre e i miei
fratelli, in verità.
Sconfitto
dall’insensibilità di quanti abitavano la mia casa, rinunciai per sempre ai
miei concerti. Il mio estro artistico virò verso altri interessi. Filomena,
invece, aveva seguitato a frequentare l’istituto musicale, con qualche
risultato, almeno così dicevano i miei. Tanto che, pur tra mille difficoltà,
nel salone di casa, a bella mostra, erano riusciti a piazzare un vecchio ma
ancora funzionante pianoforte. Lo avevano quasi estorto, pagandolo poco per
volta, ad un vecchio insegnante di musica in pensione, amico di amici e
bisognoso di liquidità.
Tre anni
di Conservatorio erano bastati perché Filomena facesse volare i suoi ditini da
un tasto all’altro del suo intoccabile pianoforte. Una scala oggi, una scala
domani. Solfeggi e ancora solfeggi. Lei era sempre là, incollata allo sgabello
del suo strumento. Che non andava toccato. Era lei la musicista di casa e a lei
toccava deliziarci della sua musica. Confesso che le sue prime suonatine
cominciavano a piacermi. La mia vecchia passione per le note, di tanto in
tanto, tornava a galla e proprio grazie lei, a mia sorella che aveva
frequentato il Conservatorio. Dico “aveva” perché ormai non frequentava più. Si
limitava, ormai, ad eseguire ad orecchio quei pochi passaggi che aveva imparato
quando frequentava. Certi pomeriggi a me la sua musica risultava
particolarmente piacevole. Seguivo con piacere le sue mani che correvano sulla
tastiera. Tasto bianco, tasto nero, poi di nuovo: tasto bianco e tasto nero.
Ti, ta, ti, ta e ancora ti, ta, ti, ta. Sprofondavo sulla poltrona posta
dinanzi al pianoforte. Percepivo un dolce rilassamento generale. Tra un ti-ta e
l’altro mi percepivo che tutto il mio sistema nervoso si liberava da ogni forma
di tensione. Mi addormentavo.
La
poltrona che mi aveva accolto improvvisamente mi risultava scomoda. Qualcosa mi
stava infastidendo. Cominciavo a sentirmi sulle spine, ad innervosirmi. Non
avevo più pace. Mi giravo e rigiravo, di qua e di là, a destra e a sinistra.
Allungavo piedi e mani. Il fastidio cresceva, cresceva, cresceva. Non ne potevo
più. Sgranavo gli occhi. Ero ancora là, davanti al pianoforte. Le dita di mia
sorella volavano ancora sui tasti bianchi e neri. Ti, ta, ti, ta, ti, ta e ancora
ti, ta, ti, ta. Tasto bianco, tasto nero, poi di nuovo: tasto bianco e tasto
nero. Ti, ta, ti, ta e ancora ti, ta, ti, ta.
Richiudevo
gli occhi, con forza e immaginavo che le dita di mia sorella rimanessero sulla
tastiera, incollate.
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