Ricevo da Damiano Leo e pubblico il racconto "Rimorsi". Buona lettura!
"Rimorsi"
Nella
prima quindicina di giugno, quando a scuola facevano la melina, mio zio,
immancabilmente, si trasferiva in campagna. A pochi chilometri dal paese.
Prenotava un treruote. Caricava pentolame, vestiti, cianfrusaglie varie e
moglie e si rifugiavano al trullo. Non avevano figli, solo nipoti, creature dei
tanti germani. Io fra loro.
Scalpitavo
per raggiungerli. I miei, anche per allentare le loro incombenze, me lo
consentivano. Lo zio mi veniva a prendere con la sua bicicletta color canna di
fucile. A destinazione mi assestava due o tre forti pacche sulla spalla. Era il
suo modo di darmi il benvenuto. La zia gli ricordava di non essere troppo
violento con il bambino. Troppo fragile per le sue manacce. Troppo sensibile -
diceva lei - per il suo modo d’accogliere il nipotino. Io, invece, pensavo che
al suo posto avrei fatto lo stesso e non ci facevo caso. Raggiungevo, in un
battibaleno, il mio campo di battaglia.
Uno dopo
l’altro mi tornavano in mente tutti gli esperimenti e il passa tempo degli anni
precedenti. Quello, però, che più mi dava soddisfazione, ma anche rimorsi, era
individuare l’animale che io potevo catturare e vivisezionare.
All’ombra
del pergolato studiavo l’andirivieni di quegli esseri. Mi acquattavo in
religioso silenzio per non disturbare il loro lavorio. Ne individuavo uno che
seguivo con lo sguardo fino a quando non spariva dietro ad un albero d’ulivo o
di fichi. Quindi tornavo con gli occhi ai tralci, alle foglie, nuovamente agli
animali.
Questa
volta cercavo quello più corpulento. Ecco è quello. Color arancione. Ne
contemplavo corpo, torace e addome. Contavo più volte le sue zampe. Erano
sempre sei. Sistemate a corredo di un apparato boccale masticatore con robuste
mandibole e antenne. Lo avvicinavo più che potevo. Attento a non farlo scappare
via. Notavo come tra il torace e l’addome avesse un restringimento. Lunghezza
più o meno trenta millimetri.
Sempre con
gli occhi puntati sulla vittima prescelta, tiravo su una foglia secca. La
ripulivo. Ne recuperavo l’estremità più dura e la lanciavo contro. Quella con
le mascelle, come se fossero catapulte, la espelleva. Quindi mi attaccava,
lanciandomi contro una spruzzatina di acido formico, che non mi distoglieva dal
mio proposito.
Qui mi
prende il rimorso.
Allungavo
pollice ed indice verso l’animale. Con precisione chirurgica strappavo, uno
dopo l’altro, funicolo, stelo, pungiglione, femore, tibia, artiglio tarsale.
Completavo l’opera spezzando in tre la malcapitata. Ne ho ancora il rimorso.
Prima il capo, poi il torace, quindi l’addome. Altre sostanze tossiche e
irritanti schizzavano lontano, come se quella povera formichina mi volesse
maledire. Chi sa se dal quel suo micro mondo poteva farlo. Intanto dall’inizio
dell’addome i suoi organi stridulanti, per sfregamento, emettevano deboli
suoni. Facendo le dovute proporzioni somigliavano agli urli che avrei potuto
fare io se qualcuno avesse tentato di strapparmi le dita ad una ad una.
Una
formica, tanti rimorsi.
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