lunedì 14 dicembre 2015

Damiano Leo: "Rimorsi"


(Damiano Leo, l'immagine è tratta dal profilo facebook  di Damiano Leo)


 Ricevo da Damiano Leo e pubblico il racconto "Rimorsi". Buona lettura!


 
"Rimorsi"
 
 
 
Nella prima quindicina di giugno, quando a scuola facevano la melina, mio zio, immancabilmente, si trasferiva in campagna. A pochi chilometri dal paese. Prenotava un treruote. Caricava pentolame, vestiti, cianfrusaglie varie e moglie e si rifugiavano al trullo. Non avevano figli, solo nipoti, creature dei tanti germani. Io fra loro.
Scalpitavo per raggiungerli. I miei, anche per allentare le loro incombenze, me lo consentivano. Lo zio mi veniva a prendere con la sua bicicletta color canna di fucile. A destinazione mi assestava due o tre forti pacche sulla spalla. Era il suo modo di darmi il benvenuto. La zia gli ricordava di non essere troppo violento con il bambino. Troppo fragile per le sue manacce. Troppo sensibile - diceva lei - per il suo modo d’accogliere il nipotino. Io, invece, pensavo che al suo posto avrei fatto lo stesso e non ci facevo caso. Raggiungevo, in un battibaleno, il mio campo di battaglia.
Uno dopo l’altro mi tornavano in mente tutti gli esperimenti e il passa tempo degli anni precedenti. Quello, però, che più mi dava soddisfazione, ma anche rimorsi, era individuare l’animale che io potevo catturare e vivisezionare.
All’ombra del pergolato studiavo l’andirivieni di quegli esseri. Mi acquattavo in religioso silenzio per non disturbare il loro lavorio. Ne individuavo uno che seguivo con lo sguardo fino a quando non spariva dietro ad un albero d’ulivo o di fichi. Quindi tornavo con gli occhi ai tralci, alle foglie, nuovamente agli animali.
Questa volta cercavo quello più corpulento. Ecco è quello. Color arancione. Ne contemplavo corpo, torace e addome. Contavo più volte le sue zampe. Erano sempre sei. Sistemate a corredo di un apparato boccale masticatore con robuste mandibole e antenne. Lo avvicinavo più che potevo. Attento a non farlo scappare via. Notavo come tra il torace e l’addome avesse un restringimento. Lunghezza più o meno trenta millimetri.
Sempre con gli occhi puntati sulla vittima prescelta, tiravo su una foglia secca. La ripulivo. Ne recuperavo l’estremità più dura e la lanciavo contro. Quella con le mascelle, come se fossero catapulte, la espelleva. Quindi mi attaccava, lanciandomi contro una spruzzatina di acido formico, che non mi distoglieva dal mio proposito.
Qui mi prende il rimorso.
Allungavo pollice ed indice verso l’animale. Con precisione chirurgica strappavo, uno dopo l’altro, funicolo, stelo, pungiglione, femore, tibia, artiglio tarsale. Completavo l’opera spezzando in tre la malcapitata. Ne ho ancora il rimorso. Prima il capo, poi il torace, quindi l’addome. Altre sostanze tossiche e irritanti schizzavano lontano, come se quella povera formichina mi volesse maledire. Chi sa se dal quel suo micro mondo poteva farlo. Intanto dall’inizio dell’addome i suoi organi stridulanti, per sfregamento, emettevano deboli suoni. Facendo le dovute proporzioni somigliavano agli urli che avrei potuto fare io se qualcuno avesse tentato di strapparmi le dita ad una ad una.
Una formica, tanti rimorsi.


 

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