Gli avevano assegnato la stanza 76 del settimo e
ultimo piano. In ospedale c’era solo quel posto. Prendere o lasciare. Lui,
però, non lo sapeva almeno fino a quando si riebbe. Lo avevano strappato alla
morte quasi per miracolo, dopo quel tremendo incidente in autostrada.
Ad
Alfonso, l’uomo dell’incidente, non piaceva fare troppe domande. Al dottore,
che ogni mattina lo visitava, non aveva chiesto neppure cosa esattamente gli
avesse procurato quel maledetto salto nel vuoto. Aveva capito da solo che,
almeno fino a quel momento, era legato al suo letto d’ospedale.
Al suo compagno di stanza, sistemato proprio sotto
l’unica finestra dalla quale si poteva guardare fuori, non aveva mai chiesto
nulla. Sapeva solo che era lì perché aveva scambiato una bottiglia di varichina
per una di vino. Ne aveva bevuto un lunghissimo sorso prima di rendersi conto
che qualcosa non era andata come doveva. Era ricoverato da circa un mese e
questo lo aveva letto sulla cartella clinica quando, erroneamente, gliela
avevano appoggiata proprio sotto gli occhi.
Alfonso se l’era vista proprio brutta. Ma lui non lo
sapeva e non lo avrebbe saputo mai se non glielo avesse voluto raccontare
proprio il suo compagno di stanza. L’uomo che aveva il privilegio di poter
guardare fuori. Cominciava ad essergli sempre più simpatico. Nei giorni
successivi al suo risveglio proprio non lo sopportava. Gli dava sempre e solo
le spalle. Lo sentiva commentare su questa o quella passante, ma a lui che non
poteva vedere, immobilizzato com’era, non riferiva neanche i colori dei
capelli, meno che meno il volume delle loro rotondità.
Chissà cosa avrebbe fatto, Alfonso, per sapere cosa
stava succedendo fuori da quel sempre più maledetto ospedale. Non gli restava,
a quel punto, che cominciare a chiedere. Una lunga degenza, qualche volta, può
cambiare le nostre abitudini. Alfonso cominciò a bersagliare di domande il suo
vicino di letto. Sempre con più insistenza. Sarebbe andato lui alla finestra,
senza chiedere. Non poteva. Proprio non poteva.
«Dimmi chi passa? Com’è? Alta, bassa, magra? Che fa? È
quella di ieri? Di che colore è la gonna? Gli occhi? I capelli?». Una
mitragliatrice. Un vulcano in eruzione. Domande su domande sul capo sempre più
stanco del degente con il letto sotto la finestra. Alle prime domande aveva
preferito non rispondere. O forse non poteva. Ma lui, il povero Alfonso che non
poteva lasciare il suo letto, era diventato sempre più petulante, sempre più
desideroso di sapere cosa diavolo succedeva là fuori. Dimmi, cosa succede in
questo cavolo di paese. Ti prego racconta, racconta.
Il compagno di stanza si allungò più che poteva verso
la finestra. Ripassò a memoria le tante domande che il povero Alfonso gli aveva
rovesciato addosso. Non sentì il bisogno di farsele rifare e cominciò a
raccontare, raccontare, raccontare, sempre con gli occhi fissi alla finestra.
Raccontava, la sera, fino ad addormentarsi, per la gioia del suo amico Alfonso,
l’uomo che non poteva lasciare il suo letto.
Gli amici
si vedono nel bisogno.
Alfonso,
finalmente, sapeva giorno per giorno cosa succedeva là fuori. L’amico di stanza
aveva continuato a raccontargli tutto, proprio tutto, con dovizie di
particolari. Persino i colori, tutti i colori.
Fino a
quando i parenti dell’amico vennero a prenderselo. Gli tolsero il pigiama. Lo
rivestirono come fosse un bambino. Gli allacciarono persino le scarpe. Dal suo
armadietto tirarono fuori uno strano bastone rosso e bianco. L’amico lo cercò a
tentoni nel buio. Finalmente lo afferrò, l’amico della sua cecità e lasciò che
lo accompagnassero fuori.
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