Ricevo da Damiano Leo e pubblico il racconto "La parmigiana e il cane". Buona lettura!
"La parmigiana e il cane"
Decidemmo
per la parmigiana. Non la mangiavamo da tanto e le tre o quattro melanzane
mimetizzate tra l’insalata, nel frigo, cominciavano a dare chiari segni
d’invecchiamento. Dovevano necessariamente finire in padella e al più presto.
Così mia moglie fece in modo che per quella cena dovevo optare per una ricca
parmigiana.
Il
piatto, ripulito per bene, fu il chiaro segno che avevamo fatto la scelta
migliore. Fatto salvo quello che successe a me da lì a qualche ora.
La
solita sbornia televisiva mi cacciò, alla chetichella, tra le lenzuola. Mia
moglie mi raggiunse, credendo di non essere sentita, non più tardi di una
lavata di denti. Non dormivo ancora e nulla mi lasciava presagire che lo avrei
fatto, almeno in breve tempo. La parmigiana cominciava a farsi sentire. Non so
a mia moglie, ma a me sembrava che quella pietanza volesse rimproverarmi
d’averla fatta fuori. Certo qualcosa non stava funzionando. Presi a girarmi e
rigirarmi nel letto come fossi una coda
di lucertola appena staccata dal resto del suo corpo.
La
mia consorte dormiva, quella notte. Io continuavo a maledire la parmigiana.
Passai il cuscino dalla testa ai piedi e poi di nuovo alla testa, quindi sotto
la schiena e ancora ai piedi. Il cuscino, mi parve, cominciò a maledire prima
me e poi la cena. Non dormivo. Proprio non riuscivo a dormire. Forse era meglio
alzarsi e fare quattro passi. Feci quattro passi. Anzi, quarantaquattro passi.
Li contai come si contano le pecore quando non si riesce a dormire.
Dovevo
stancarmi, se volevo essere accarezzato dal dio Morfeo. Ma dove si era
cacciato, quella notte? Dicono che capita di non riuscire a dormire, qualche
volta. A me non era mai successo e lo sapeva bene mia moglie che continuava,
beata lei, a sognare. Già, i sogni, me ne raccontava di straordinari, appena
levati.
Io
non sogno mai. Come avrei potuto, quella notte, senza sonno e per giunta
strapiena di turbamenti? Una notte senza fine, lenta, maledetta. Per ammazzare
il tempo, che non voleva morire, avevo persino contato gli incroci che
formavano i mattoni del pavimento. La messa in opera, mia moglie, l’aveva voluta a spina di pesce ed io, quella
notte, con un dito avevo seguito tutte le fughe, per contarne gli incroci.
Gli
occhi mi dolevano non poco. Allo specchio del bagno di servizio, quello lontano
dalla camera da letto, mi sembravano due buche da golf. Decisi di non ritornare
più a letto. Lo avevo fatto già troppe volte e sempre avevo finito con
l’alzarmi un’altra volta. Tanto valeva restare in bagno. L’alba non doveva
farsi attendere ancora molto. Le due sveglie sul comodino di mia moglie, a
turno, avrebbero fatto sentire a breve il loro canto.
La
cinghia dell’avvolgibile mi accarezzò la mano, quella libera dagli occhi
arrossati. Potevo verificare il sorgere del sole se solo la tiravo a me, la
cinghia. Lo feci, lentamente, per non fare rumore, per non svegliare mia
moglie.
Finalmente
aprii la finestra. Una nuvola di fumo m’invase la faccia. Mi sporsi più che
potevo, per cercare di guardare oltre la nebbia. Un cagnaccio dal pelo bianco,
almeno così mi parve, andava su e giù sul marciapiede di fronte, dal civico 4
al civico 14. Di tanto in tanto si fermava e alzava lo sguardo in alto, come se
cercasse qualcosa o qualcuno. Come se volesse compiere qualcosa senza essere
visto. Forse gli animali sanno fare più di quello che lasciano vedere. Solo non
vogliono farcelo sapere.
Quel
cane, improvvisamente, si fermò. Dette fugacemente un’ultima occhiata in giro e
s’avventò sulla prima porta che gli capitò a tiro. Portò in alto le due zampe
anteriori. Si assestò dritto in piedi come se quella fosse la sua usuale
posizione. S’appoggiò con le zampe sulla maniglia e la porta si aprì. Spinse il
muso contro il video citofono. Uno squillo rimbombò nella nebbia.
Il
cane sparì come una saetta dietro l’angolo, forse perché, credendo di non
essere visto, poteva comportarsi come gli umani.
Nessun commento:
Posta un commento