(Damiano Leo, l'immagine è tratta dal profilo facebook di Damiano Leo)
Ricevo da Damiano Leo e pubblico il racconto "A Tolone". Buona lettura!
“Vieni
in Marina e girerai il mondo”, era questo, in quegli anni, lo slogan
pubblicitario per chi voleva arruolarsi. Per me che lo feci, cominciava da
subito a diventare realtà.
Il
mio vecchio cacciatorpediniere levò le ancore alla volta di Tolone, in Francia.
Le promesse cominciavano a realizzarsi e sia io, che i miei giovani
commilitoni, gioivamo di una gioia nuova. Non a tutti era data l’opportunità di
conoscere porti ed abitudini stranieri. Udire, dalla viva voce, lingue diverse
dall’italiano o dal vernacolo. I giovani dall’ora parlavano poco e male la
lingua nazionale. Per le strade imperavano i vari dialetti e pochi arrivavano
ad un grado scolastico dove poter studiare altre lingue.
L’allegra
combriccola di giovani marinai aveva solo me avanti negli studi. Oltre alle
medie, dove avevo appreso i primi rudimenti di francese, avevo frequentato
anche il primo scientifico. Altro francese. Potevo ben dirmi capace di
intavolare un qualche discorso, all’occorrenza. Le quattro o cinque casacche bianche,
con il classico solino blu, potevano ritenersi fortunate. Nessuno dei marinai
con i quali sbarcai a Tolone, aveva superato le elementari. Niente lingue
straniere. Ero io il loro interprete ufficiale.
L’agio,
una paghetta suppletiva per quando si era all’estero, doveva bastarci per tutta
la sosta francese. Pochi franchi. Comunque non volevamo ripartire senza aver
assistito, almeno una volta nella nostra vita, ad uno spettacolo di Can-can
francese.
Per
la prima libera uscita decidemmo di non visitare alcun ristorante. Non dovevamo
e non potevamo sederci comodamente per cenare. Ma qualcosa dovevamo pur mettere
nello stomaco. In qualche modo dovevamo pur prenderlo in giro, lo stomaco.
Per
alzata di mano si decise di acquistare panini dal forno ed affettati da una
salumeria. L’unione delle due cose, ci avrebbe fatto risparmiare. Sì, ma, come
far capire alla salumiera cosa doveva affettarci? Toccava a me risolvere la
questione. Il francese, più o meno, sapevo parlarlo solo io. Il meno lo nascosi
nel mio io, il più lo sbandierai ai miei amici. Panini celati in una busta di
plastica, affrontammo la prima Alimentaire.
L’enorme scritta sulla porta d’ingresso non destava dubbi: lì avremmo trovato
tutto il necesser per riempire i
nostri sfilatini.
Nello
stesso istante in cui toccava a noi, il mio francese cadde come in un baratro.
Perdevo inesorabilmente tutta la mia sicurezza. Non potevo, però, tirarmi
indietro. Toccava a me spiegare cosa volevamo. E mi buttai a capo fitto.
«Nu vulon en pè d’affettè pur le notre
pen». La signora dietro al bancone mi
guardava perplessa. Io, imperterrito, continuavo. «Nu le pen ce l’aviom già. Da chi vulom sulamend en pe d’affitton,
salame, prosciut e mortadellà». La
proprietaria della salumeria cercava di interrompermi. Supplicava con gli occhi
i miei amici di farmi tacere. Ma io dovevo farmi capire. Solo io potevo parlare
francese, con la signora e continuai a farlo, cosciente, però, di stare a
italianizzare un pessimo francese. «Affitton,
nu volom sole affitton – continuavo caparbiamente – le pen no, nu già l’aviom, vulom sol en pe de martadellà, salame e prosciut».
La
commessa parve improvvisamente appagata. Certamente aveva compreso il mio
francese. S’allungò verso di noi, restando dietro al bancone e, in perfetto
italiano, scandì: «Ditemi esattamente cosa volete, bei marinai».
Uno
degli amici glielo disse in perfetto siciliano e quella capì subito.
Ci
salutò con una manina. Con l’altra indicò un grosso cartello posto in vetrina.
Lo leggemmo: “SI PARLA ITALIANO”. Lo avessimo letto entrando, non avrei
sciorinato tutto il mio orribile francese.
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